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la vita è treno

Ragazza con la borsa a forma di gatto
parla con la vecchia lavandaia
sul terrazzo con l’edera sulla ringhiera
e la locomotiva che passa in cucina,

il mio passato sono i rombi di luce
trasportati dalle onde,
e la vecchia ha un cesto pieno sulla testa
e sta cambiando colore…

Adoro ogni traccia di te
e devo perdere l’abitudine di ricordare,
è come raccontare un sogno
o descrivere il fondo del mare.

Diamante estate 2013

Benevento, Hortus Conclusus
“Nulla in Italia è più antico di Benevento, che secondo le leggende locali fu fondata o da Diomede o da Ausone, un figlio di Ulisse e Circe. Essa fu senza dubbio un'antica città ausonica, fondata lungo tempo prima della conquista sannita di questa parte d'Italia.”
A scriverlo è Edward Hutton, nato ad Hampstead, Londra, nel 1875. I suoi viaggi in lungo e in largo per lo Stivale furono oggetto di numerose opere, tra cui spicca il suo ultimo lavoro, Naples and Campania revisited, uscito a Londra nel 1958 per Hollis and Carter. La sua testimonianza viene citata dallo storico casertano Aniello Gentile, autore di Benevento nei ricordi dei viaggiatori italiani e stranieri (Società Editrice Napoletana, Napoli 1982), opera patrocinata dal comune di Benevento. Sulla soglia del testo, il saggista beneventano Roberto Costanzo ripercorre la storia della sua città: “Quando dalle brume nordiche i Longobardi calarono per fondarvi il più grande ducato dell’Italia meridionale, Paolo Varnefrido Diacono ne celebrò i fasti.”
Costanzo si riferisce al Ducato di Benevento, la cui fondazione si fa risalire al 576; esso costituiva, insieme al Ducato di Spoleto, la cosiddetta “Langobardia Minor”, separata dalla “Maior” (come venivano chiamati i territori settentrionali) dallo Stato Pontificio. Il Ducato di Benevento rappresentò da un lato l’insediamento longobardo più meridionale, dall’altro l’ultimo a cadere (accadde solo nel 1078, quando i Normanni presero Salerno).
È in questo lontano passato che bisogna ricercare le origini e le prime testimonianze di una delle leggende popolari più note e studiate in Italia e nel mondo: quella delle Streghe di Benevento e del mitico Noce sotto le cui fronde esse si radunavano, un tema che ritroviamo nelle opere degli artisti praticamente di ogni tempo. La fonte più importante, a cui dobbiamo la stragrande maggioranza delle informazioni sull’argomento, è forse il “Trattato historico” intitolato Della superstitiosa Noce di Benevento, stampato a Napoli per i tipi di Giacomo Gaffaro nel 1640. L’autore è il beneventano Pietro Piperno, singolare e poliedrica figura di scrittore, filosofo e scienziato. Egli fu infatti medico, anzi “protomedico”, ossia il funzionario pubblico che coadiuvava lo Stato nell’adempimento dell’attività sanitaria (inutile sottolineare la rilevanza anche politica di questa carica). Nel suo trattato, rifacimento in volgare di un primo lavoro in latino, il Piperno ricostruisce la eziologia della leggenda, la quale assume contorni di vera e propria eresia. Le strane pratiche e i riti demoniaci che sembravano svolgersi sotto il Noce infatti derivavano dai culti religiosi pagani dei Longobardi: si racconta che nel VII secolo i Beneventani adorassero idoli come una testa di capra, un serpente di bronzo o una vipera d’oro (quest’ultima, detta “Anfisibena”, poteva essere alata o bicefala). La maggior parte di queste cerimonie si svolgevano sotto un enorme albero di noce situato due miglia fuori città, nelle cui radici, secondo l’autore, si era addirittura insediato il Diavolo. Siamo nel Seicento, il secolo del Barocco e della Controriforma cattolica, e per un uomo di scienza avvenimenti soprannaturali come miracoli, apparizioni ed interventi divini o diabolici di ogni sorta sono ancora plausibilissimi.
Ferdinand Gregorovius, storico tedesco del XIX secolo, riferisce che all’epoca “la città si considerava come repubblica sotto l'alto patrocinio dei Papi”. Il trattato è dunque un frutto dell’ortodossia cattolica più intransigente, volto alla descrizione del nemico (i pericolosi residuati di un paganesimo barbarico antico e misterioso) e alla sua distruzione culturale e materiale. In una società in cui la dottrina cristiana penetrava ancora ogni manifestazione della vita umana non c’era spazio per altre posizioni: la censura ecclesiastica costringeva gli autori a modificare anche i contenuti più innocui e l’alternativa era vedere il proprio lavoro messo all’Indice e arso pubblicamente (e non dimentichiamo i tanti eretici veri o presunti condannati al rogo dal Tribunale dell’Inquisizione). Gli intellettuali più intransigenti si arrangiavano come potevano: nacquero la stampa clandestina, la dedica a un personaggio potente che potesse fungere da protezione, la crittografia.
Nella sua opera, Pietro Piperno descrive l’albero incriminato e ne narra la storia, per poi soffermarsi sulle maggiori famiglie del patriziato beneventano che tanto peso ebbero nella vittoria del cattolicesimo su quei culti eterodossi (l’autore rintraccia gli albori delle casate in questione proprio nel VII secolo: sui loro stemmi familiari figurano infatti serpenti alati a due teste). Si chiarisce poi per quale motivo le Streghe si riuniscano qui piuttosto che altrove e perché siano donne piuttosto che uomini; si sottolinea l’incredibile fama del luogo maledetto presso gli Stregoni di tutto il mondo e se ne individua la precisa collocazione. Completa l’opera una serie di gustosi “esempi” di casi strani o prodigiosi riguardanti le Streghe oppure verificatisi all’ombra del Noce.
Nella prima parte dell’opera si intrecciano più che altrove storia e leggenda: si narra dell’assedio mosso nel 663 dall’imperatore bizantino Costante II al Ducato di Benevento. Ben presto a Romualdo I, sesto duca della città, non rimane che chiedere l’aiuto divino tramite la generosa intercessione di San Barbato, il futuro Vescovo di Benevento che predicava in piazza contro le idolatrie e i riti mostruosi che si svolgevano presso il Noce. La battaglia è vinta, soprattutto grazie al valore dei cavalieri longobardi e ai rinforzi provenienti da Nord e capeggiati da Grimoaldo, Re dei Longobardi e padre di Romualdo. Quest’ultimo, restaurata la pace, mantiene la parola e, recatosi in processione nella nebbiosa Valle del fiume Sabato, fa sradicare il diabolico albero, nelle cui radici viene trovato Satana in persona sottoforma di orrido serpente: solo un nuovo intervento di Barbato, che uccide il Demonio con l’acqua benedetta, salva la situazione.
In realtà si pensa che i riti longobardi affondino le proprie radici in culti pagani diffusisi a Benevento già durante la dominazione romana: si adoravano Iside, la dea egizia della luna che poteva dominare i serpenti, Ecate e Diana, divinità greco-romane rispettivamente degli inferi e della caccia (identificate come entità una e trina). Ipotesi molto probabile, se si pensa che il termine locale per “strega” è “janara”, che potrebbe voler dire “seguace di Diana” oppure derivare da ianua, latino per “porta”. Secondo la tradizione popolare infatti per tenere le Streghe lontane dalla propria casa bisogna tenere una scopa o un sacchetto di sale appunto davanti alla porta d’ingesso. La Strega che nottetempo tenterà di entrare dovrà allora contare tutti i fili della scopa o i granelli di sale finché spunterà il sole, la cui luce ucciderà la “sposa di Satana”.
Il Cristianesimo tentò di spazzare via le pratiche pagane preesistenti, ma finì con inglobarne molteplici elementi: per fare un solo esempio, il culto della Madonna ha più di un punto in comune con quello di Iside. I Longobardi si convertirono formalmente, ma in molti non abbandonarono le antiche credenze: un rito in onore di Wotan, il padre degli dei, prevedeva che la pelle di un caprone fosse appesa a un ramo del Noce. I cavalieri giostravano con l’obiettivo di strappare con le loro lance brani di pelle che poi divoravano in una sorta di pasto rituale. È probabile che le urla dei guerrieri abbiano suggerito ai Beneventani cattolici l’idea delle danze orgiastiche.
In ogni caso, alla fine del racconto Pietro Piperno può esultare per il trionfo dell’ortodossia sull’eresia: il Noce è distrutto e la partita è vinta. O forse no? In fin dei conti, un’inquietante leggenda narra che molti altri simili alberi siano cresciuti spontaneamente poco lontano, originandosi per intervento diabolico dalle radici del primo. E il duca Romualdo, privatamente e in gran segreto, continuò ad adorare la sua vipera d’oro a due teste…

antonio oliva 2012 per rivista "cultura e dintorni"
Antonio Oliva, Le Streghe di Benevento. La leggenda della "superstitiosa Noce", collana Saggistica, Caravaggio editore, Vasto, in uscita

su di me

La mia foto
Ariano Irpino, Avellino, Italy
Antonio Oliva è nato nel 1985 ad Ariano Irpino (AV). Ha partecipato a numerosi progetti teatrali e musicali. Nel 2009 si laurea in Lettere Moderne e nel 2012 in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Dopo diverse esperienze nel 2015 si abilita all'insegnamento presso lo stesso Ateneo. Ha lavorato a Roma e Bergamo e vive itinerando.
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