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Se non scrivessi esploderei,
mi manchi, scrivo e non ci sei,
mi bagno solo le labbra,
poi il cuore,
poi bevo,
un giorno ci rivedremo
per quel caffè,
nel posto dove se vinci vinci
e se perdi non hai perso niente,

sarai guarito
dentro al prato,

mentre io spengo caselline,
tu ormai cos’è che hai perso?

Ti canterò
tutto quello che esiste
e quando avrò finito
per te comincerò a tradurlo
in un linguaggio nuovo.


Ariano agosto 2013



HAPPY 2015 WORLD!

Ecco il mio nuovo libro "Le Streghe di Benevento. La leggenda della 'superstitiosa Noce'" (collana Saggistica, Caravaggio editore [Vasto])

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antonio

Nell'ambito del Natale nel Centro Storico di Ariano Irpino, verrà presentato in anteprima il nuovo libro di Antonio Oliva "Le Streghe di Benevento. La leggenda della 'superstitiosa Noce'" (collana Saggistica, Caravaggio Editore [Vasto], in stampa). Appuntamento alle ore 18 al Palazzo di Vetro (piazza Ferrara), sala conferenze.


novembre 2014
cittadiariano.it

La vita e il rock di Lou Reed

“Tutti quei vostri psichiatri da due soldi che ti fanno l’elettroshock, mi avevano detto che mi avrebbero lasciato vivere a casa con mamma e papà e non in un manicomio, e invece qui ogni volta che cerco di leggere un libro non riesco ad arrivare neanche a pagina 17, perché dimentico dove ero arrivato… Non lo capite che così uccideranno i vostri figli?”

I genitori di Lou Reed – una famiglia borghese di origini ebraiche – sottoposero il figlio quattordicenne a diverse sedute di elettroshock therapy per curargli degli evidenti “segnali di bisessualità”. La cosa, oltre a non “guarirlo”, gli cambiò la vita per sempre. Più avanti avrebbe scritto Kill your sons.
Louis Allen Reed, newyorchese di Brooklyn cresciuto a Coney Island, era nato nel 1942 e se ne è andato nel mese di ottobre, lasciandoci una eredità poetica e musicale di altissimo livello, dopo aver vissuto una vita lunga settantuno anni e migliaia di miglia spericolate.
La sua creatura più famosa resta legata ad un nome che oggi è leggenda: i Velvet Underground, band seminale messa su insieme ad un gruppo di amici a metà anni Sessanta. Oltre a Lou, buon chitarrista, in quel gruppo di musicisti veri ce n’era solo un altro, John Cale, il polistrumentista che sbalordì tutti con la sua angosciante viola. Gli altri erano Sterling Morrison ed il suo basso ossessivo e Maureen Tucker, una delle prime batteriste donne del rock, grezza e primitiva. Quando Andy Warhol li notò, li prese immediatamente sotto la propria ala protettrice e li portò alla sua Factory, lo studio di Manhattan frequentato da tutti i maggiori artisti d’avanguardia dell’epoca. A quel punto arrivò Nico, la cantante tedesca voluta dallo stesso Warhol, che contribuì in maniera determinante ad accentuare l’immagine ambigua della band.
Per Velvet Underground & Nico, l’album d’esordio, ancora oggi considerato uno dei dischi più influenti di tutti i tempi, sono state usate tante etichette: rock sperimentale, proto-punk, rock psichedelico, rock&roll, pop-rock. L’iconica copertina, opera di And Warhol, nell’edizione originale presentava una inconfondibilmente allusiva banana rosa in bassorilievo, con la buccia gialla “sbucciabile”.  Nel gruppo, immagine a parte, Lou Reed era il tuttofare: autore di testi e musiche, chitarrista e cantante. Indimenticabili perle (Venus in furs, Sunday morning, All tomorrow’s party, I’ll be your mirror, Femme fatale, Heroin) erano divise tra la voce di Reed e quella di Nico.
Testi ambigui, malati, perversi, figli legittimi delle tenebre dell’ambiente underground di New York e di tutti i suoi vizi, parole che segnano un’epoca: “Stivali di cuoio lucidissimi, una ragazzina schiocca una frusta nel buio, accorre il tuo servo, non risparmiarlo, colpiscilo, padroncina, e cura il suo cuore. Morbidi peccati di piaceri sotto i lampioni della strada, alla ricerca di abiti da indossare, con una pelliccia di ermellino che l’adorna austera… Io sono stanco, sono esausto, potrei dormire per mille anni, e mille sogni mi risveglierebbero, con colori diversi fatti di lacrime”.
Un poeta del male abbinato a una musica spesso sinistra, con veri e propri manifesti tossici, a cominciare dall’incredibile inno mortale Heroin, ma che sapeva diventare dolcissima in un batter d’occhio, senza però mai smarrire quel perenne senso di ansia trasmesso anche grazie a testi che esprimevano tutte le inquietudini e i malesseri di una generazione nata durante la Seconda Guerra Mondiale, cresciuta nei bassifondi e che adesso viveva per le tentacolari strade della Grande Mela: “E’ domenica mattina, faccio entrare l’alba, ma è solo una sensazione di inquietudine che mi sta accanto. Albeggia presto la domenica mattina, ma sono solo gli anni sprecati che ti incalzano. Stai attento, il mondo ti è alle spalle e ci sarà sempre qualcuno intorno a te che ti chiama”.
Ma i Velvet, dopo essere stati il perno dell’Exploding Plastic Inevitable Show di Warhol, si sgretolano presto, dopo soli quattro dischi che saranno profondamente assorbiti da diverse generazioni di musicisti, fino ad essere riconosciuti tra i veri grandi ispiratori del fenomeno punk. Tracce di Velvet si trovano dappertutto, dal punk alla new wave, dalla psichedelia al noise, dal lo-fi all’alternative rock.
E qui ha inizio la seconda parte della carriera di Lou Reed, quella degli anni Settanta, nei quali entra con la carriera a pezzi e il fisico minato dagli eccessi e dalla droga. La scena underground ha ormai lasciato il posto al rock decadente, al progressive e ai suoi suoni elaborati, alle melodie sinfoniche e barocche:  ormai c’è poco spazio per i suoni grezzi dei vicoli della desolazione newyorchesi. Ma a dargli una salvifica mano accorre David Bowie, all’epoca incontrastato re del rock cosiddetto glam, quello del travestitismo e dell’ambiguità. Bowie, cresciuto con Dylan, Stones, Beatles e Velvet Underground, ha sempre considerato Reed alla stregua di idolo e non perde l’occasione: gli fa da produttore, lo aiuta nelle incisioni e gli modella un album, Transformer, che entrerà a far parte delle pietre miliari del rock anni Settanta. Pezzi tirati come Vicious si alternano a sublimi ballate che si chiamano Satellite of love e Perfect day, chiudendosi sulle note buie e saltellanti di Walk on the wild side, un film sulla vita di cinque travestiti, Holly, Candy, Jackie, Little Joe e Sugar Plum Fairy, personaggi bizzarri che se la sfangano nei meandri più oscuri dei malfamati sobborghi newyorchesi: “Holly viene da Miami, Florida, ha attraversato gli Usa in autostop e lungo la strada si è sfoltita le sopracciglia e si è depilata le gambe, diventando una lei, e ora dice ‘hey bimbo, facciamoci un giro nella zona selvaggia’. Little Joe invece non l'ha mai dato via gratis, con lui tutti devono pagare profumatamente,  una botta qui e una botta là, perché New York è il posto dove ti dicono ‘Amico, ci facciamo un giro nella zona selvaggia?’ Candy arriva dall'isola, e quando va nel retro lei è la ragazza di tutti, non perde mai la testa neanche quando lavora di bocca. Adesso è arrivato anche Sugar Plum Fairy, è in giro in cerca di cibo per l'anima e di un posto dove mangiare, poi è andato all’Apollo: avresti dovuto vederlo come ci dava dentro… Jackie invece si è riempita di speed, lei pensava di essere James Dean per un giorno e così ho capito che si sarebbe schiantata presto: solo il Valium l'avrebbe potuta aiutare…”
La carriera di Reed proseguirà tra tre matrimoni, due divorzi (la terza moglie, Laurie Anderson, anche lei musicista, gli resterà accanto fino alla fine) e tanti dischi, di cui alcuni ancora memorabili, tra cui vanno almeno menzionati Berlin, Sally can’t dance, Rock and roll animal, Coney Island baby, New York, Magic and loss. Nel 1990 esce Song for Drella, il tributo a Andy Warhol, da poco scomparso, inciso insieme all’altro ex-Velvet John Cale. “Drella” era l’eloquente soprannome con cui nell’ambiente era affettuosamente chiamato Warhol, metà Dracula e metà Cinderella, con evidenti riferimenti alle sue celebri attitudini notturne.

Lou era uno dei grandi sopravvissuti, uno dei pochi che aveva superato la dipendenza da eroina e si era disintossicato, arrivando completamente ripulito alla fase più matura della sua vita. Ma soprattutto resterà uno dei più grandi artisti che il rock abbia espresso, uno di quelli che hanno davvero contribuito alla crescita e all’evoluzione di una musica relativamente giovane ma senza confini.

antonio oliva 2013 per rivista cultura e dintorni

Mémoire étouffée

Restiamo soli,
facciamo un gioco,
abbiamo pianto,
si è rotto tutto,

mi schermisco,
mi ritrovo
a ricordare
il buio
il freddo
la calda
luce artificiale
nel mattino della vita
quando d’inverno fa notte presto
nella cucina marrone.

Non so
se sono il genio
o l’infiltrato.

In molti lo giudicano un tipo decisamente strano. Gli hanno dato del drogato, lo hanno chiamato “comunista” e “venditore di parole”. Qualche politico di destra si è detto sicuro che in un paese normale non avrebbe mai venduto dischi. In compenso, qualche militante di sinistra lo ha accusato di dare aria ai denti senza fare nulla per cambiare la situazione.
In realtà Caparezza è soltanto un cantautore. I suoi arrangiamenti frequentano i generi più disparati, dal rock al reggae alla orchestrale, e troppo spesso lo si è bollato semplicemente come “cantante rap”. Il suo forte sono i testi: è infatti dotato di una non comune creatività che ci regala una parola tagliente, veloce, dissacrante, perfettamente inserita in un sistema coerente di richiami, rime, assonanze. Può passare con nonchalance dalla citazione dotta allo slang meno letterario che si possa immaginare. Tutti lo conoscono per Fuori dal tunnel e molti sostengono che abbia scritto solo quella. È ingiustamente noto più per i suoi capelli che per altro. Ma cosa c’è dietro i capelli?
In questo breve excursus non si parlerà di quand’era Mikimix a Sanremo giovani, né di quando decise di demolire dall’interno la musica hip-hop raggiungendo un largo successo, né del fatto che “Caparezza” significa “Testa riccia”. Esamineremo invece qualche aspetto particolare delle liriche di Michele Salvemini, nato a Molfetta (Bari) nel 1973, uomo autoironico e autore dannatamente bravo.
Caparezza ha pubblicato nel 2008 “Saghe mentali” (Rizzoli, € 19). È un’autobiografia decisamente sui generis, come del resto tutte le produzioni del nostro autore, ma ottima per districarsi in una imponente selva di parole in cui rimangono sovente angoli oscuri. Il primo disco esce nel 2000 e non incide molto. Emblematico il titolo: ?! Si tratta di canzoni abbastanza scolastiche in ognuna delle quali l’autore dice la sua su un grande tema (la maternità, la guerra, la violenza). Le più belle sono Mea culpa (Mikimix diventa Caparezza e fa ammenda a proposito del capitolo appena concluso, in cui veniva sfruttato e plagiato da discografici-barracuda), Chi cazzo me lo (un’esilarante satira sui giovani e i loro “divertimenti forzati” in discoteca, al concerto gotico, allo stadio), La fitta sassaiola dell’ingiuria (con la scusa dei… capelli, Caparezza inserisce la voce campionata di Confessioni di un malandrino di Branduardi, il quale comparirà a sorpresa durante un concerto per duettare). Ti clonerò e Mi è impossibile parlano addirittura d’amore. Un disco, insomma, che non lascia il segno, ma che rappresenta l’inizio del viaggio.
Nel 2003 Caparezza compare in tv e i più restano scioccati e lo prendono per pazzo perché il Nostro si dimena cantando Fuori dal tunnel, altra parodia giovanile dal testo stavolta piuttosto enigmatico (il “tunnel” è il divertimento, non la droga!). Arriva la notorietà: l’altro singolo è Vengo dalla luna, un pezzo sulla tolleranza. Il disco si chiama Verità supposte ed è dedicato alla relatività di ogni dettame. Imperdibili Follie preferenziali (sul pacifismo), Giuda me (la Questione Meridionale diventa un duetto virtuale con Totò), Dualismi (riprende la poesia omonima del poeta scapigliato Arrigo Boito), L’età dei figuranti (sulla tv), Nel paese dei balordi (“Le avventure di Pinocchio” riadattate ai giorni nostri), Il secondo secondo me (tutta basata su frasi retoriche), Limiti (sulla nostalgia), Nessuna razza (vera e propria dichiarazione di non-appartenenza) e soprattutto Dagli all’untore (Caparezza cita Manzoni e diventa un diabolico untore che diffonde l’epidemia della sua satira). Le liriche sono già geniali, gli arrangiamenti molto belli. Insomma, il suo migliore album.
Nel 2006 ci sono le elezioni politiche e Caparezza esce con Habemus Capa, da lui stesso ribattezzato “L’opera tronfia”, il suo disco più politico. Nel libro, l’autore si traveste addirittura da Dante e ci guida, canto dopo canto, alla scoperta di un inferno terreno e contemporaneo. Salvemini prende finalmente posizione, e non poteva fare altrimenti: nel primo album si riteneva “troppo alternativo per la destra, troppo posato per la sinistra” e sceglieva la via di mezzo, ma la situazione nazionale e trascorsi personali con i leghisti (era andato al Nord per studiare) portano a Inno verdano (ridicolizza Lega e razzismo), Gli insetti del podere (il suo capolavoro testuale) e Ninna nanna di Mazzarò. Nell’una l’Italia intera viene trasformata in un podere in cui vige l’occulta dittatura del ragno e delle sue tele(visioni). Il protagonista non cambia nell’altra, ispirata a una novella di Verga del 1880: Mazzarò accumulò tutta la roba possibile, poi si rese conto che non poteva avere la vita eterna e, impazzito, cominciò ad uccidere il suo pollame per portarlo con sé nell’aldilà. Nel libro Caparezza dedica questi e molti altri brani ad una persona di cui non ricorda il nome... Il disco è un concept album: l’autore inscena il suo funerale (Annunciatemi al pubblico) e finge di reincarnarsi in corpi diversi finché alla fine non ritorna in sé (Habemus Capa). Nel frattempo, ce n’è per la società frenetica e consumistica che si sta autodistruggendo (Torna Catalessi, Epocalisse), il politico-matador ucciso dal popolo-toro (Dalla parte del toro), l’intolleranza (la celebre La mia parte intollerante), chi non si schiera mai (Il silenzio dei colpevoli), la tv (The Auditels family, Ti giri), amori effimeri di celebrità usa e getta (Felici ma trimoni). Il gioco di parole si fonde coi soliti ritornelli orecchiabili e con un arrangiamento musicale meno elettronico e più rock, con maggiore partecipazione della band che accompagna Caparezza.
Il 2008 è l’anno di un nuovo concept album: sono passati quarant’anni dal 1968 e la società ha vissuto una paurosa involuzione. Caparezza si avvale di doppiatori professionisti e costruisce la storia di una giovane hippy che si ritrova catapultata nell’era di Facebook: è simile a lui e i due si innamorano, ma lei viene immediatamente corrotta dalla nostra società e regredisce. Nel 2000 Caparezza voleva stare “tra gli uomini di molta fede”, poi si rende conto che “nemmeno Geova mi vuole come suo testimone” e che “chi si crede Dio pecca di immodestia”. In Non mettere le mani in tasca la Chiesa ha il controllo della società: il testo è spettacolare. Il disco è famoso per Vieni a ballare in Puglia, che non è, come si crede, un gioioso tormentone estivo, ma una denuncia di paurose realtà della provincia dimenticata del nostro Sud. Caparezza prende simpaticamente in giro Al Bano, che ha partecipato al videoclip. Si parla molto delle morti bianche (Eroe), ma anche di abusi edilizi (La grande opera), revisionismo (Pimpami la storia), emergenza rifiuti (con semplicità quasi infantile in Cacca nello spazio, con orrore in Il Circo delle Pantegane), maschilismo (Un vero uomo dovrebbe lavare i piatti). Io diventerò qualcuno si riferisce al fu “Partito dell’Uomo Qualunque”, trasformato nel “Fronte dell’Uomo Qualcuno” in cui ognuno è una celebrità. Alla fine c’è Bonobo Power: “la scimmia è l’evoluzione dell’uomo”, “è una pericolosa alternativa sociale” e “non va al Family Day”, “alla faccia di religiosi, intellettuali e politici benpensanti”. Un disco molto bello, supportato da nuovi arrangiamenti che a volte sconfinano nell’heavy-rock.
Il sogno eretico è appena uscito, accompagnato dalla prima raccolta (Epocalisse) e da una serie di brevi sketch che girano online (“The Boias”). L’ironia dell’artista è diventata polemica aperta e violenta. Questa volta il bersaglio principale è una Chiesa inquisitoria che narcotizza le coscienze e brucia gli oppositori sul rogo. Vengono scomodati Giordano Bruno (“Dio mi ha dato un cervello, se non lo usassi gli mancherei di rispetto”), Giovanna d’Arco, Galileo e Savonarola. In Messa in moto Caparezza diventa addirittura Dio e rivolge una preghiera all’uomo! Alla situazione socio-politica nazionale Caparezza dedica Goodbye Malincònia (si parla di emigrazione tra una nuova citazione del Sommo Poeta ed un duetto con Tony Hadley degli Spandau Ballet), Non siete Stato voi, Legalize the premier, La marchetta di Popolino (con la fin troppo facile allusione a Walt Disney), La ghigliottina (sulla rivoluzione impossibile) e Cose che non capisco (per chi gli risponde: “Ti fai troppi problemi Michele, non te ne fare più”), in cui si può ascoltare un estratto del film “Sogni d’oro” di Nanni Moretti (1981). La fine di Gaia rassicura tutti sul 2012; Tutti dormano e Chi se ne frega della musica riprendono un filone già frequentato in passato: lo sberleffo a discografici, labels e music business. Kevin Spacey è un divertissement cinematografico: “Non per la politica dovete odiarmi, non per la voce nasale, ma per questo pezzo: finalmente avete un motivo!” grida Caparezza prima di rivelare come finiscono molte famosissime pellicole. A collegare tra loro i pezzi non mancano gli intermezzi recitati; i concerti di Caparezza, del resto, sono per metà veri e propri spettacoli di cabaret.
Il viaggio, insomma, continua, e il protagonista non perde un colpo. Egli stesso ha ammesso di preferire ad un fan sfegatato un più equilibrato simpatizzante. Forse perché sa bene cosa significa “essere capito male”: “Ecco l’ipocrita che giudica senza toga, quello fuori dal tunnel della droga…” D’altro canto, l’ultimo brano del nuovo disco, dal poetico titolo Ti sorrido mentre affogo, nello strizzare l’occhio ai Gatti di Vicolo Miracoli dice a chiare lettere che “non mi interessa essere capito, mi interessa essere, capito?”

antonio oliva 2011 per rivista "cultura e dintorni"

La vita e l’arte di 
Giorgio Faletti

Cosa fa di uno scrittore un ottimo narratore? Cos’è che ci fa chiedere in qualunque momento della giornata come si comporterebbe o come la penserebbe il protagonista del romanzo che stiamo leggendo? Qual è la molla che scatta quando sentiamo di essere “dentro” le vicende raccontate? Sono queste le domande che mi sono posta dopo essermi trovata pochi anni fa tra le mani, per puro caso, Io uccido di Giorgio Faletti, il primo thriller dell’autore astigiano, che ha venduto solo in Italia più di quattro milioni di copie ed è stato tradotto in tutte le principali lingue del mondo.
Faletti è venuto a mancare dopo una malattia lo scorso luglio, a soli 63 anni. Già nel 2002, poco dopo l’uscita di Io uccido, aveva superato un altro grave problema di salute. La moglie Roberta in una recente intervista ha ricordato quanto quella prova avesse cambiato la vita del suo compagno, il quale non dimenticava mai di aver avuto una seconda chance, anzi ripeteva spesso “se penso che in questi 12 anni ho fatto le cose a cui tenevo di più, devo ritenermi l’uomo più fortunato del mondo”.
Negli anni, dai suoi esordi nel panorama del cabaret milanese fino al successo dei suoi gialli, ci ha abituato a non abituarci troppo in fretta ad un’opinione su di lui: sempre versatile, non si è mai adagiato sull’etichetta di comico, attore, paroliere o cantautore. Si è anzi lanciato in diverse esperienze artistiche, fino alla letteratura, ricevendo in cambio l’affetto di un vasto pubblico ma spesso anche delle critiche per la sua ‘non classificabilità’ e per i pregiudizi di chi lo considerava un outsider e non si è voluto ‘rassegnare’ ad annoverarlo nella categoria degli scrittori.
All’opposto estremo, invece, il parere di uno degli autori di thriller di maggior successo negli Stati Uniti, Jeffery Deaver, che ha dichiarato nel 2009: “Uno come Giorgio dalle mie parti si definisce larger than life, uno che diventerà leggenda”.
In ogni caso, la fama di Faletti si conferma con i successivi Niente di vero tranne gli occhi (2004), romanzo dall’ambientazione noir ricco di crude descrizioni, e Fuori da un evidente destino (2006), che vira verso il soprannaturale e che porta un po’ a perdersi tra realtà e sogno. Dopo l’incursione nella narrativa breve con la raccolta di racconti Pochi inutili nascondigli del 2008, Faletti torna nel mondo del romanzo con due capolavori nel giro di due anni: Io sono Dio (2009) e Appunti di un venditore di donne (2010) rappresentano la consacrazione come autore di bestseller. Il suo stile penetrante, a volte oscuro fino a sembrare indecifrabile ma mai noioso, le brevi frasi ad effetto, i flash back non tradiscono le aspettative, soprattutto nel secondo libro, ambientato questa volta non negli Stati Uniti ma in una Milano vintage e ‘tiratardi’, quella del famoso Derby e degli anni di piombo.
Come se volesse prendersi una sorta di pausa, Faletti pubblica nel 2011 Tre atti e due tempi, romanzo dalla trama più malinconica: decide di cambiare tattica, come si fa nel gioco del calcio e anche nel mondo del calcio, protagonista di questa storia. L’ultima opera (2012) è Da quando a ora (un libro autobiografico e due cd musicali) nel quale Faletti si mette a nudo, con l’ironia e la tenerezza che lo hanno contraddistinto in tutta la sua attività artistica.
La scrittura di Faletti scorre senza sforzo, non ha intoppi, è elegante, si prende il tempo che le serve. Le storie non si chiudono mai in modo banale, come a volte può accadere nei thriller. L’uso delle metafore dà forza ad ogni singola immagine e il lettore è lì, nella mente e nel cuore dei protagonisti, a scegliere con loro, con loro affronta il destino, la crudeltà, l’amore, la morte e altre innumerevoli battaglie.
È tutto questo che, a mio avviso, fa sì che Jordan, Maureen, Nessuno, Vivien, Russel, Jim, Jean-Loup, Frank, Bravo, Carla, Lucio, Silver, non restino semplicemente ad aspettarci sul comodino fino a sera o in fondo alla borsa in attesa di addolcire un po’ un viaggio barboso. Al contrario, loro ci accompagnano durante la giornata: Faletti li ha resi vivi, alcuni li ha resi persino nostri amici, di altri ancora non sappiamo bene se amarli o odiarli, perché a dire il vero sono un po’ antipatici ma hanno quel non so che, mentre di altri siamo sicuri, non ci piacciono proprio, e riusciamo a immaginarli tutti, il loro aspetto ci è familiare come se ci incontrassimo al bar tutti i giorni.
Le parole scritte sono segni neri che camminano sul bianco, sono formiche messe in fila che procedono pagina dopo pagina verso un posto che nessuno conosce”, scrive Faletti in Pochi inutili nascondigli: lui forse però in quel posto era di casa, e ha tentato di farlo conoscere anche a noi.

  
se troppo ho immaginato e camminato
ma con occhi da sorprendere
e un cuore per comprendere
se mai
tutto quel che ho avuto
e se dovrò cucirmi addosso anch'io
lo strappo al velo di un addio
però
confesso che ho vissuto
[da “Confesso che ho vissuto”, 1998, musica di A. Branduardi, testo di G. Faletti]

    
Filomena Roberto 
per Cultura e dintorni

Cerchi di equilibrare
elementi assunti
e ti bendi gli occhi
ma la luce rimane,
è nella tua testa,

la Città ci accoglie
con colori alle pareti,
gioventù squaglia sul sedile dietro,
la vita del Mostro scorre,

ma colline non respiro
e il corpo giace a terra non so come,
l’Agglomerato è ancora treno
e muore tutti i giorni.

antonio oliva (rivista Cultura e dintorni)

napoli 10.09.2014

“Il capitale umano”: la commedia di qualità di Paolo Virzì in lizza per l’Oscar

Ogni vita umana ha un preciso valore, calcolabile al centesimo. Immaginiamo una tabella in cui vediamo incasellati diversi parametri, come reddito, aspettativa di vita, conoscenze, competenze, quantità e qualità dei legami affettivi. La valutazione complessiva è detta “capitale umano” e si esprime in euro. Per esempio, c’è un cameriere precario non più giovane, moglie e figli a carico, che tornando a casa in bicicletta viene fatto fuori da un SUV che poi sparisce nella notte. Precario ciclista = tot. € 218.976,00.
“Il capitale umano” arriva nelle sale lo scorso inverno. Il regista Paolo Virzì, uno dei più apprezzati autori e innovatori della moderna commedia all’italiana, racconta di una Brianza fredda, cinica, inumana. Vediamo intrecciarsi sullo schermo le esistenze di uomini e donne alto-borghesi che l’avidità porta verso la deriva morale, specchio fedele della società contemporanea: i due personaggi principali, un piccolo immobiliarista (Fabrizio Bentivoglio) e uno squalo di Piazza Affari (Fabrizio Gifuni), si incontrano a causa della relazione tra i figli. Questi ultimi studiano in un facoltoso liceo privato, che ha organizzato una cerimonia per l’assegnazione dell’immancabile premio scolastico. Quella sera il malcapitato cameriere era di turno…
In settembre il regista livornese ha incassato un meritato successo: “Il capitale umano” è stato scelto dalla commissione di selezione istituita dall’Anica su invito dell’Academy come candidato italiano all’Oscar per il miglior film straniero. Si ripete quanto accaduto nel 2011, quando il film proposto fu un’altra perla di Virzì, “La prima cosa bella”, poi non candidato. Non sarà certo facile dopo l’exploit de “La grande bellezza”, che ha portato il genio di Sorrentino e il volto di Servillo alla vittoria finale e al meritato riconoscimento internazionale. Basta pensare poi ai grandi film selezionati negli ultimi anni e poi non nominati: “Gomorra” di Garrone, “La sconosciuta” e “Baarìa” di Tornatore, “Terraferma” di Crialese. Se si esclude “La grande bellezza”, l’ultima nomination italiana all’Oscar risale al 2006 (“La bestia nel cuore” di Cristina Comencini).
Paolo Virzì è comprensibilmente soddisfatto e dichiara: “Ringrazio la commissione, sono emozionato e onorato di questa candidatura. Mi sento investito di una grande responsabilità in un momento complicato, ma il cinema italiano è vivo.” Non possiamo dargli torto: nell’anno in cui si festeggia l’ottantesimo compleanno dell’icona del cinema mondiale Sofia Loren, tanti ottimi titoli affollano i palinsesti delle sale, purtroppo non molto piene quando il film è di qualità e italiano. Una primizia di questa stagione, “I nostri ragazzi” di Ivano De Matteo, ripropone le tematiche del film di Virzì. Chi ben comincia…
Il prossimo step è la cosiddetta short list: si tratta di una lista di una decina di film, dalla quale saranno scelti i cinque finalisti che arriveranno a Los Angeles il 22 febbraio. “Il capitale umano” si appoggia al suo team di stelle nostrane capitanate da Bentivoglio, che dà vita, per dirla con Giorgio Faletti, a un personaggio “così milanese da sembrare uno scherzo”. Tutti bravi e apprezzati, da Gifuni a Lo Cascio (che recita anche ne “I nostri ragazzi”), dalle “mogli” Valeria Golino e Valeria Bruni Tedeschi (premio TriBeCa alla migliore attrice) alla vecchia volpe della comicità milanese Bebo Storti. “Provo grande gioia” ha dichiarato orgoglioso Gifuni, impegnato a teatro, “e sono convinto che il film sia molto accessibile negli Usa.” Non a caso è già stato venduto in trentacinque paesi e ha incassato 6 milioni e mezzo di euro.
“Il capitale umano” in effetti viene dagli Stati Uniti: il film numero undici di Virzì è infatti tratto da Human Capital, un thriller sociale pubblicato nel 2008 dallo scrittore e giornalista americano Stephen Amidon. Dal Connecticut alla Brianza il passo è breve, e alle pur comprensibili polemiche sollevate da chi ha accusato il regista di aver dipinto un quadro della gente e dei luoghi descritti non rispondente a realtà (per non dire immondo), si può ribattere che tutto il mondo è paese e un film d’attualità ben fatto è, purtroppo, specchio dei tempi. Dal vecchio Ovosodo (1997) al più maturo Tutti i santi giorni (2012), passando per quel piccolo capolavoro che è Tutta la vita davanti (2008), non ci sono peraltro dubbi sul fatto che Virzì sia un maestro in questo.
La commissione di selezione (composta, tra gli altri, da Gabriele Salvatores) ha parlato della grande qualità di tutti i titoli iscritti quest’anno e dell’ardua impresa di selezionarne tre, e da questi uno solo. Merito di Virzì che, con Francesco Bruni e Francesco Piccolo, ha adattato magistralmente il testo d’origine alla realtà brianzola e italiana, merito delle coinvolgenti atmosfere noir e di interpretazioni sapienti: come dimenticare l’inconcludente conciliabolo degli intellettualini milanesi che, guidati da Lo Cascio, si riuniscono intorno alla povera Bruni Tedeschi e si parlano addosso all’infinito? Il film d’altronde è stato lodato in Italia come all’estero: per La Repubblica è il migliore lavoro del regista.
Sette David di Donatello, sette Nastri d’Argento, il Golden Globe: sono solo alcuni dei traguardi già raggiunti. Adesso parte la “campagna elettorale”: la “prima” inglese a Londra e poi la promozione americana. La coproduzione italo-francese targata Virzì dovrà battere la concorrenza de “Il regno d’inverno - Winter sleep”, la pellicola turca che ha trionfato a Cannes (regia di Nuri Bilge Ceylan), oltre ai fratelli Dardenne (Belgio), il francese Bonello, il polacco Paweł Pawlikowski, per citarne solo alcuni. Nonostante la crisi, il cinema italiano è vivo. Dopotutto, è proprio la crisi economica a rimettere a posto le disastrate sorti dei protagonisti nel paradossale finale de “Il capitale umano”, in cui Valeria Bruni Tedeschi dice al marito Fabrizio Gifuni: “Avete scommesso sulla rovina di questo paese, e avete vinto.”

antonio oliva per Cultura e dintorni


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Ultimamente sto scrivendo di cinema e domani posterò un articolo che apparirà in rivista. Intanto, consiglio questi 10 titoli. Qualcuno potrebbe innamorarsi di qualche perla sconosciuta, qualcuno che ci segue da lontano lontano potrà fare ricerche.

1. Baarìa, Giuseppe Tornatore
2. Il cuore grande delle ragazze, Pupi Avati
3. La bella società, Gian Paolo Cugno
4. Fragole e sangue, Stuart Hagmann
5. Bella addormentata, Marco Bellocchio
6. Mio fratello è figlio unico, Daniele Luchetti
7. This must be the place, Paolo Sorrentino
8. Midnight in Paris, Woody Allen
9. Reality, Matteo Garrone
10. Smetto quando voglio, Sydney Sibilia

Ps: restyling in corso. A domani
ao

Verranno giorni più belli
e più belli ci sono stati,
uomini e donne si somigliano,
si stringono e si toccano
sotto il salice,

l'ombra stringe il cielo
e là il grigio un poco si apre,
uomini e donne sono tristi,
si esorcizzano con appuntamenti
che non rispetteranno.

in treno 10.09.2014

Non ci vedo,
vedo doppio,
meglio così,
vedo sempre te,
sei un sogno,
un’opera d’arte,
una principessa
tibetana
il tuo corpo
toglie il fiato,
il tuo viso
è avanguardia pura,
mi dicevano la troverai,
non mi avevano detto
che sarebbe stato così,
una dea
e giocare se ci sono
a testa o croce.

Davvero
ascoltami se puoi,
ti prego,
non te ne andare,
e non avrei mai pensato di dirlo
io che non restavo mai,
andremo
a coltivare i rampicanti
nel giardino della vita
che vive solo se stiamo insieme,

uniti
dagli zoccoli di Pan,
non credevo che esistesse
una linea così pura
da ritenerla perfezione,
io, che mi lamento del Paradiso,
ma non posso stare senza di te
che mi doni l’Inferno
tutte le notti
e chiamami
condannato a marcire se vuoi,
non smetterò mai di amarti,
non ci sarà mai armistizio…

E canto
il mio canto storpio se ci riesco,
dovrebbero tutelarti, sei in via di estinzione,
mangia, riposati, riscaldati,
non permetterò mai a nessuno
di essere quello
che ho scoperto di essere io,
finiamola con la dannazione
e la santità,
scegli tu un nome,
quel nome amerò.

Voglio solo te
e ti ho nel sangue,
non smetterò
di andare avanti
da metà in cima
anche se tutte le coscienze del mondo
piangeranno,
io non ce l’ho,
e dimmi, stai bene oggi?
Hai bisogno di qualcosa?
Io sì, di troppe cose
che non voglio più
se sento solo una parola
che sia tua…

Non riesco ad andar via…
sono solo
e non sto bene,
ma semplicemente
sono una metà
che porto sulle spalle,
sono onde,
siamo io e te.
Senza te non ho domani,
le tue mani sulle essenze
che ti do forte la notte
e mi rendi tu al mattino
piano, e più lo voglio
e più lo faccio,
e dimmi pure disgraziato
se vuoi,
ma ucciderebbero per la mia malasorte.

E dici “non è vero”,
ma credimi,
non so chi, ma ce ne ha messo
per farti quella che sei sempre,
sei più bella tu di stracci
che le gran signore in tiro,
sei migliore tu che servi
che tutte le padrone assieme.

Non ho nulla contro Dio,
è con l’uomo che ho un attrito,
ma mi sporco mani e piedi
in un turbine d’avorio,
e Dio c’è, credete a me,
ché una tale meraviglia
custodita nel mio scrigno
non da sola si può fare,
ecco quindi fede in terra,
ecco dunque fede in Dio,
Dio è una donna,
la Donna sei tu.

Toglierai la mia paura,
solo te voglio guardare,
solo tuo, solo mia,
vedrai, andrà bene,
comunque vada…

Ariano 03 01 11, 01 55

Buon anno!

Ti porto nel cuore vecchia città
e finché avrò un cuore ti porterò

e quando penso a te
sto meglio nel tuo cuore
che nel resto della casa.

ariano 1° settembre 2014, mattina

Antonio Oliva
Le streghe di Benevento. La leggenda della "superstitiosa Noce"
Caravaggio Editore (collana Saggistica)

In uscita in tutte le librerie e in ebook

Alla scoperta della leggenda delle streghe di Benevento e delle sue manifestazioni e rappresentazioni nella letteratura italiana (e non solo).

;)

L’uomo ha una bara al posto della testa, da ciò si evince che non è un uomo. Nella mano destra impugna una picozza. Attorno a lui, pugni chiusi emergono da gusci di lumaca, chiedendo più case, per tutti, mentre due amanti, nel vicolo, che è la loro casa, si stringono sul materasso seminudi, lei davanti e lui dietro a cingerla con il braccio sinistro. Una donna pedala in bicicletta a piedi scalzi, taglia 46, tre ditoni ognuno.
Il tizio con il feretro al posto della testa stringe anche la mano sinistra. Dentro la mano c’è un collo. Il collo, lunghissimo ed esile, è quello di un uccellaccio, giallo anche lui come il tizio; la sua testa, tonda, è sormontata da un cappello a cilindro come quello dei prestigiatori, il suo sorriso è ebete, gli si vede solo l’occhio sinistro e questo è il simbolo del dollaro: $.
- Sono le 4, amore, è ora di tornare a casa. Questa immobile lotta sarà qui anche domani, come tutti i giorni.
- Io mi affaccerò più tardi dalla finestra a dare uno sguardo. Così, metti che proprio stanotte gli vien voglia di tagliargli la testa.

La statua di pietra discende la fiancata diroccata della chiesa di Monteverginella e attraversa via Giovanni Paladino. È notte e il camion della nettezza urbana ritira enormi carichi di spazzatura. Il rumore tagliente di una cascata di vetri fa da contraltare ai motorini che passano, ai giovanotti che ridono, all’università, un mostro che sempre sbuffa aria, solenne.
La statua avverte un senso di rovina sublime. Come al solito. Percorre vico Orilia. Probabilmente è la via più importante di Napoli, la conoscono tutti e nessuno: spacca a metà l’università Federico II, mettendo in comunicazione via Mezzocannone con via Paladino. Se non ci fosse tutti noi cammineremmo sempre il triplo. Detto questo, nell’economia metropolitana le sue mansioni sono: fungere da cesso, per esseri umani ma soprattutto per le loro bestie, che arrivano gonfie come palloni aerostatici e se ne vanno via sollevate; ospitare eroinomani. I suoi vecchi basoli sono sempre imbiancati dalla polvere degli eterni lavori che si svolgono nei dintorni per trasportare nel ventunesimo secolo, a poco a poco, i muri e le strade della città dei secoli precedenti, per assicurare il minimo indispensabile a tamponare la situazione almeno fino all’indomani, per non perdere tutto. Ormai i basoli rimangono bianchi anche se la polvere va via. L’hanno accolta dentro di sé e adesso staranno insieme abbracciati per sempre. La polvere non è più sopra la strada, ora la polvere è la strada.
Per terra è un percorso ad ostacoli fatto di residui organici, rifiuti, siringhe, infatti la strada è meglio conosciuta come “il vico delle merde”. Vi si affacciano porte metalliche che portano chissà dove, chiaramente all’interno dell’università perché le altissime fiancate dei due edifici universitari di Mezzocannone sono l’unica cosa che c’è nello strettissimo vico Orilia, che non si trova all’università ma è composto, formato da essa. Nessuno sa dove conducono queste porte. A metà strada ci sono quattro scalini non a prova di motorino e dappertutto si ammirano disegni murali urbani, alcuni dei quali sono molto belli. Il vico fa schifo, ma non è colpa sua, è colpa di ciò che c’è sopra, di tutto ciò che gli viene quotidianamente perpetrato. È un po’ quello che succede a Napoli, in Italia, sul pianeta Terra nella sua totalità. Queste e altre cose pensa la statua mentre cammina. Nessuno sa chi è Orilia, né si è mai posto il problema, perché nessuno ha mai letto l’insegna del vicolo, noto più che altro perché ci facilita il percorso dall’università al pitaro di via Paladino, luogo di ritrovo di studenti o sedicenti tali, davanti ai quali mai bisogna dire “via Paladino”, ma sempre “via del Pitaro”, o non ti capiranno.
La statua percorre Mezzocannone fino al fatidico largo Girolamo Giusso.
- Ciao. Non ti dico il mio nome, perché io sono il Santo Patrono della tua città e tu sicuramente mi hai già riconosciuto. Stasera compio 500 anni e dunque sono sceso a fare un giro anch’io.
- Ciao. Mi chiamo Pasquale. Ho 19 anni. E bevo una Peroni.

La scrivania è ricoperta di macchie, e ogni macchia equivale a una tazza di caffè che ha scacciato sonno, emicrania e dopo sbornia, commutandoli con pensieri creativi pari quasi a quelli procurati dalla sbornia stessa. Una lampada comprata un pomeriggio d’autunno illumina le poche idee che ho in testa e le poche ore rimaste, e tutte si dileguano in egual maniera. Provo sì, provo no, provo a scrivere un po’ in prosa, tanto lo so che ricomincio con le solite pose, e abbandono, lo faccio sempre, perché non sono capace di comunicare niente se non con macchie di immagini più o meno autoreferenziali. Filomena dice che dovrebbero togliermi la laurea (le lauree), ed ha ragione, anche se mi chiamano “prufssò”, come mio nonno che lo era davvero.
Qualche tempo fa avrei aspirato una lunga boccata di sigaretta, peggiorando la situazione del mio colon, già rompipalle di suo. Nella stanza a fianco amici si godono un film. Io no. Solo in questa stanza dai muri di colori diversi e tutti rotti, l’ennesima che dovrò lasciarmi alle spalle. Negli ultimi anni sono successe tante cose qui, ho scritto molte pagine con la mia Olivetti che i miei genitori mi hanno regalato per un compleanno anni ’90 e quelle tazze di caffè sempre tra le dita. Ma ora basta, le pareti della casa non parlano più di noi, domani si parte e non mi rassegno a questo momento, anche se lo aspetto praticamente da quando sono arrivato in questa casa dove non funzionava niente e dove abbiamo costruito molto.
Questa città mi mancherà, è inutile negarlo. Sono sempre quel bambino nella hall dell’albergo amalfitano, del resto. Desideroso di tornare a casa finché non scopre che la sua casa lui non sa ancora dove sia. E si mette a piangere. Il Grande Agglomerato del Sud mi ha visto piangere tante volte. Anche otto anni fa, quando sono arrivato, per la nostalgia, oppure per qualche problema che ora sembra così piccolo.
In questo momento non riesco a pensare al ragazzo sorridente, ben pettinato e con la camicia viola infilata nei suoi jeans costosi che l’altro ieri ha attraversato corso Umberto a pochi metri da noi e si è infilato correndo nei vicoli che salgono verso Forcella: il ragazzo brandiva una pistola che ha puntato verso la macchina che gli procedeva contro, quindi è salito sul marciapiede che lo separava dalla meta. Non riesco a pensare a tutta la gente che ha visto e si è fatta, ovviamente, i fatti propri, come sempre, anche perché credo che tutti loro abbiano già avuto dimestichezza con una scena simile almeno una volta nella vita.
Non riesco a pensare a Peppe, il nostro rapinatore di quartiere che ci inseguiva fin dentro i portoni di casa, e al fatto che lo (ri)conoscevamo tutti anche da lontano, nel buio della notte, sul suo motorino chiaro senza targa, con la sua corporatura scheletrica. Mi ricordo che anni fa comparvero in centro certi foglietti appesi ai muri con lo scotch, come quelli di chi affitta casa, che mettevano in guardia da lui. L’arte di arrangiarsi, nostra, sua, che era stato licenziato. Era un abitué, Peppe, ma non aveva l’esclusiva. Non riesco a pensare a chi preferisce i quartieri a rischio alle cosiddette “terre di nessuno”, dove la camorra e i suoi affari non fungono da gigantesco deterrente nei confronti della microcriminalità, dei piccoli delinquenti degli scippi in motorino per capirci. Io ho abitato diverse zone dell’Agglomerato, e ho notato che nella pratica succede proprio così. E non riesco adesso a pensare a questo, o che a un certo punto Peppe è sparito.
Non riesco a pensare a tutti quelli che sono spariti, che non ce l’hanno fatta, alle convivenze di merda, all’università allo stremo, tagli riforme e leccaculo. Nemmeno al fatto che tra poco devo essere giù a divertirmi, e per stasera, per un’altra sera ancora “chi vuol esser lieto sia”.
No. Penso alle cene, tutte le serate, i momenti belli e quelli meno belli, mio padre che mi porta qui e mi dice, tanti anni prima, davanti a un altro tavolo e a un’altra Olivetti, di scrivere semplice e andare al sodo. E l’ho fatto. Non come gli snob incapaci che ho incontrato poi, tutto fumo e niente arrosto, che leggono venti libri al giorno e non sono capaci di mettere sul tavolo un’emozione che sia una, giocare la loro partita, rischiare e stare al mondo, barricati dietro nebulose parole senza dio e senza eros, corrotti schiavi della moda e del sesso, corpi senza vita. E poi ci sono loro, i rivoluzionari figli di papà che domani impersoneranno i loro stessi nemici, i duri e puri cui basta una kefiah e una bestemmia gratuita al volume giusto per scandire a puntino il loro sentirsi alternativi, i poeti depressi che inflazionano la parola “anima”, i parcheggiati.
Quanto a me, mi ci vorrebbe un lavoro serio, da onesto mestierante della parola e della vita. Non dell’anima. E la certezza, che arriverà, che ci rivedremo domani, mio meraviglioso, decadente, sempre sognato Agglomerato. Un’altra stanza mi ha insegnato la poesia, possa ora questa, come musa invecchiata e polverosa, donarmi la sintesi su questo quaderno giallo che abbiamo comperato il giorno prima della laurea in un viaggio psicofisico volto ad alleviare il caldo e la tensione con la peggiore nemica dell’artefice: una irraggiungibile distrazione. “Remember, we always have a choise”. Possa, questa stanza, tradurmi in prosa. E ricordarsi di me mentre qualcun altro guarderà di notte nelle aule universitarie dove la luce, nessuno sa perché, è stata lasciata accesa. O forse nessuno lo noterà più.

Fuochi d’artificio. Non petardi, ma proprio fuochi d’artificio. Il rumore proviene da piazzetta del Nilo, attraversa piazza san Domenico Maggiore e si propaga per Spaccanapoli correndo verso piazza del Gesù Nuovo. La luce illumina i palazzi di via Mezzocannone e il rosso della chiesa di un giallo vivo. Sembra una festa, un tripudio arancione, oppure una di quelle cerimonie cafonissime al termine delle quali il festeggiato segnala al mondo che è il festeggiato. Pare che nel centro storico questo segnali invece l’arrivo di una partita di droga.
Da piazza san Domenico non si riesce a vedere niente perché piazzetta Nilo è nascosta dalla facciata di palazzo Corigliano che fa angolo. Sediamo sulla solita fioriera in pietra piena di piante rovinate e bottiglie vuote.
- Hai sentito?
- Sì.
- Vanno tutti a vedere.
- Andiamo anche noi?
- Andiamo a vedere, così capiamo anche noi… o no?
Fine.
Forse.

napoli settembre 2012

su di me

La mia foto
Ariano Irpino, Avellino, Italy
Antonio Oliva è nato nel 1985 ad Ariano Irpino (AV). Ha partecipato a numerosi progetti teatrali e musicali. Nel 2009 si laurea in Lettere Moderne e nel 2012 in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Dopo diverse esperienze nel 2015 si abilita all'insegnamento presso lo stesso Ateneo. Ha lavorato a Roma e Bergamo e vive itinerando.
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