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Antonio Oliva
Le streghe di Benevento. La leggenda della "superstitiosa Noce"
Caravaggio Editore (collana Saggistica)

In uscita in tutte le librerie e in ebook

Alla scoperta della leggenda delle streghe di Benevento e delle sue manifestazioni e rappresentazioni nella letteratura italiana (e non solo).

;)

L’uomo ha una bara al posto della testa, da ciò si evince che non è un uomo. Nella mano destra impugna una picozza. Attorno a lui, pugni chiusi emergono da gusci di lumaca, chiedendo più case, per tutti, mentre due amanti, nel vicolo, che è la loro casa, si stringono sul materasso seminudi, lei davanti e lui dietro a cingerla con il braccio sinistro. Una donna pedala in bicicletta a piedi scalzi, taglia 46, tre ditoni ognuno.
Il tizio con il feretro al posto della testa stringe anche la mano sinistra. Dentro la mano c’è un collo. Il collo, lunghissimo ed esile, è quello di un uccellaccio, giallo anche lui come il tizio; la sua testa, tonda, è sormontata da un cappello a cilindro come quello dei prestigiatori, il suo sorriso è ebete, gli si vede solo l’occhio sinistro e questo è il simbolo del dollaro: $.
- Sono le 4, amore, è ora di tornare a casa. Questa immobile lotta sarà qui anche domani, come tutti i giorni.
- Io mi affaccerò più tardi dalla finestra a dare uno sguardo. Così, metti che proprio stanotte gli vien voglia di tagliargli la testa.

La statua di pietra discende la fiancata diroccata della chiesa di Monteverginella e attraversa via Giovanni Paladino. È notte e il camion della nettezza urbana ritira enormi carichi di spazzatura. Il rumore tagliente di una cascata di vetri fa da contraltare ai motorini che passano, ai giovanotti che ridono, all’università, un mostro che sempre sbuffa aria, solenne.
La statua avverte un senso di rovina sublime. Come al solito. Percorre vico Orilia. Probabilmente è la via più importante di Napoli, la conoscono tutti e nessuno: spacca a metà l’università Federico II, mettendo in comunicazione via Mezzocannone con via Paladino. Se non ci fosse tutti noi cammineremmo sempre il triplo. Detto questo, nell’economia metropolitana le sue mansioni sono: fungere da cesso, per esseri umani ma soprattutto per le loro bestie, che arrivano gonfie come palloni aerostatici e se ne vanno via sollevate; ospitare eroinomani. I suoi vecchi basoli sono sempre imbiancati dalla polvere degli eterni lavori che si svolgono nei dintorni per trasportare nel ventunesimo secolo, a poco a poco, i muri e le strade della città dei secoli precedenti, per assicurare il minimo indispensabile a tamponare la situazione almeno fino all’indomani, per non perdere tutto. Ormai i basoli rimangono bianchi anche se la polvere va via. L’hanno accolta dentro di sé e adesso staranno insieme abbracciati per sempre. La polvere non è più sopra la strada, ora la polvere è la strada.
Per terra è un percorso ad ostacoli fatto di residui organici, rifiuti, siringhe, infatti la strada è meglio conosciuta come “il vico delle merde”. Vi si affacciano porte metalliche che portano chissà dove, chiaramente all’interno dell’università perché le altissime fiancate dei due edifici universitari di Mezzocannone sono l’unica cosa che c’è nello strettissimo vico Orilia, che non si trova all’università ma è composto, formato da essa. Nessuno sa dove conducono queste porte. A metà strada ci sono quattro scalini non a prova di motorino e dappertutto si ammirano disegni murali urbani, alcuni dei quali sono molto belli. Il vico fa schifo, ma non è colpa sua, è colpa di ciò che c’è sopra, di tutto ciò che gli viene quotidianamente perpetrato. È un po’ quello che succede a Napoli, in Italia, sul pianeta Terra nella sua totalità. Queste e altre cose pensa la statua mentre cammina. Nessuno sa chi è Orilia, né si è mai posto il problema, perché nessuno ha mai letto l’insegna del vicolo, noto più che altro perché ci facilita il percorso dall’università al pitaro di via Paladino, luogo di ritrovo di studenti o sedicenti tali, davanti ai quali mai bisogna dire “via Paladino”, ma sempre “via del Pitaro”, o non ti capiranno.
La statua percorre Mezzocannone fino al fatidico largo Girolamo Giusso.
- Ciao. Non ti dico il mio nome, perché io sono il Santo Patrono della tua città e tu sicuramente mi hai già riconosciuto. Stasera compio 500 anni e dunque sono sceso a fare un giro anch’io.
- Ciao. Mi chiamo Pasquale. Ho 19 anni. E bevo una Peroni.

La scrivania è ricoperta di macchie, e ogni macchia equivale a una tazza di caffè che ha scacciato sonno, emicrania e dopo sbornia, commutandoli con pensieri creativi pari quasi a quelli procurati dalla sbornia stessa. Una lampada comprata un pomeriggio d’autunno illumina le poche idee che ho in testa e le poche ore rimaste, e tutte si dileguano in egual maniera. Provo sì, provo no, provo a scrivere un po’ in prosa, tanto lo so che ricomincio con le solite pose, e abbandono, lo faccio sempre, perché non sono capace di comunicare niente se non con macchie di immagini più o meno autoreferenziali. Filomena dice che dovrebbero togliermi la laurea (le lauree), ed ha ragione, anche se mi chiamano “prufssò”, come mio nonno che lo era davvero.
Qualche tempo fa avrei aspirato una lunga boccata di sigaretta, peggiorando la situazione del mio colon, già rompipalle di suo. Nella stanza a fianco amici si godono un film. Io no. Solo in questa stanza dai muri di colori diversi e tutti rotti, l’ennesima che dovrò lasciarmi alle spalle. Negli ultimi anni sono successe tante cose qui, ho scritto molte pagine con la mia Olivetti che i miei genitori mi hanno regalato per un compleanno anni ’90 e quelle tazze di caffè sempre tra le dita. Ma ora basta, le pareti della casa non parlano più di noi, domani si parte e non mi rassegno a questo momento, anche se lo aspetto praticamente da quando sono arrivato in questa casa dove non funzionava niente e dove abbiamo costruito molto.
Questa città mi mancherà, è inutile negarlo. Sono sempre quel bambino nella hall dell’albergo amalfitano, del resto. Desideroso di tornare a casa finché non scopre che la sua casa lui non sa ancora dove sia. E si mette a piangere. Il Grande Agglomerato del Sud mi ha visto piangere tante volte. Anche otto anni fa, quando sono arrivato, per la nostalgia, oppure per qualche problema che ora sembra così piccolo.
In questo momento non riesco a pensare al ragazzo sorridente, ben pettinato e con la camicia viola infilata nei suoi jeans costosi che l’altro ieri ha attraversato corso Umberto a pochi metri da noi e si è infilato correndo nei vicoli che salgono verso Forcella: il ragazzo brandiva una pistola che ha puntato verso la macchina che gli procedeva contro, quindi è salito sul marciapiede che lo separava dalla meta. Non riesco a pensare a tutta la gente che ha visto e si è fatta, ovviamente, i fatti propri, come sempre, anche perché credo che tutti loro abbiano già avuto dimestichezza con una scena simile almeno una volta nella vita.
Non riesco a pensare a Peppe, il nostro rapinatore di quartiere che ci inseguiva fin dentro i portoni di casa, e al fatto che lo (ri)conoscevamo tutti anche da lontano, nel buio della notte, sul suo motorino chiaro senza targa, con la sua corporatura scheletrica. Mi ricordo che anni fa comparvero in centro certi foglietti appesi ai muri con lo scotch, come quelli di chi affitta casa, che mettevano in guardia da lui. L’arte di arrangiarsi, nostra, sua, che era stato licenziato. Era un abitué, Peppe, ma non aveva l’esclusiva. Non riesco a pensare a chi preferisce i quartieri a rischio alle cosiddette “terre di nessuno”, dove la camorra e i suoi affari non fungono da gigantesco deterrente nei confronti della microcriminalità, dei piccoli delinquenti degli scippi in motorino per capirci. Io ho abitato diverse zone dell’Agglomerato, e ho notato che nella pratica succede proprio così. E non riesco adesso a pensare a questo, o che a un certo punto Peppe è sparito.
Non riesco a pensare a tutti quelli che sono spariti, che non ce l’hanno fatta, alle convivenze di merda, all’università allo stremo, tagli riforme e leccaculo. Nemmeno al fatto che tra poco devo essere giù a divertirmi, e per stasera, per un’altra sera ancora “chi vuol esser lieto sia”.
No. Penso alle cene, tutte le serate, i momenti belli e quelli meno belli, mio padre che mi porta qui e mi dice, tanti anni prima, davanti a un altro tavolo e a un’altra Olivetti, di scrivere semplice e andare al sodo. E l’ho fatto. Non come gli snob incapaci che ho incontrato poi, tutto fumo e niente arrosto, che leggono venti libri al giorno e non sono capaci di mettere sul tavolo un’emozione che sia una, giocare la loro partita, rischiare e stare al mondo, barricati dietro nebulose parole senza dio e senza eros, corrotti schiavi della moda e del sesso, corpi senza vita. E poi ci sono loro, i rivoluzionari figli di papà che domani impersoneranno i loro stessi nemici, i duri e puri cui basta una kefiah e una bestemmia gratuita al volume giusto per scandire a puntino il loro sentirsi alternativi, i poeti depressi che inflazionano la parola “anima”, i parcheggiati.
Quanto a me, mi ci vorrebbe un lavoro serio, da onesto mestierante della parola e della vita. Non dell’anima. E la certezza, che arriverà, che ci rivedremo domani, mio meraviglioso, decadente, sempre sognato Agglomerato. Un’altra stanza mi ha insegnato la poesia, possa ora questa, come musa invecchiata e polverosa, donarmi la sintesi su questo quaderno giallo che abbiamo comperato il giorno prima della laurea in un viaggio psicofisico volto ad alleviare il caldo e la tensione con la peggiore nemica dell’artefice: una irraggiungibile distrazione. “Remember, we always have a choise”. Possa, questa stanza, tradurmi in prosa. E ricordarsi di me mentre qualcun altro guarderà di notte nelle aule universitarie dove la luce, nessuno sa perché, è stata lasciata accesa. O forse nessuno lo noterà più.

Fuochi d’artificio. Non petardi, ma proprio fuochi d’artificio. Il rumore proviene da piazzetta del Nilo, attraversa piazza san Domenico Maggiore e si propaga per Spaccanapoli correndo verso piazza del Gesù Nuovo. La luce illumina i palazzi di via Mezzocannone e il rosso della chiesa di un giallo vivo. Sembra una festa, un tripudio arancione, oppure una di quelle cerimonie cafonissime al termine delle quali il festeggiato segnala al mondo che è il festeggiato. Pare che nel centro storico questo segnali invece l’arrivo di una partita di droga.
Da piazza san Domenico non si riesce a vedere niente perché piazzetta Nilo è nascosta dalla facciata di palazzo Corigliano che fa angolo. Sediamo sulla solita fioriera in pietra piena di piante rovinate e bottiglie vuote.
- Hai sentito?
- Sì.
- Vanno tutti a vedere.
- Andiamo anche noi?
- Andiamo a vedere, così capiamo anche noi… o no?
Fine.
Forse.

napoli settembre 2012

Ho visto cipressi zafferano
e la tua foto che mi guarda la mattina,
quando potrò prenderò un rifugio
abbastanza piccolo per noi due
nel cuore della tua città,
qualunque tu vorrai che sia,
e vivremo cantando le nostre visioni
ogni sera un albergo diverso,
ogni notte distrutta,

il sogno è finito,
non ci pensano più al solito bar,
giriamo in tondo, sempre le stesse vie
per trovarci faccia a faccia
e dire che ci siamo incontrati,
ripeterci che stanno bene
magnolia e lavanda,

cieco chi ci aspetta,
chi ci cerca pazzo,
quando sono in vena
non ci sono,
per nessuno è
e non significa niente,
capisci,
è l'unico modo che ho
per non morire mai,
l'unico trucco per essere noi.

bracciano 1° agosto 2014

su di me

La mia foto
Ariano Irpino, Avellino, Italy
Antonio Oliva è nato nel 1985 ad Ariano Irpino (AV). Ha partecipato a numerosi progetti teatrali e musicali. Nel 2009 si laurea in Lettere Moderne e nel 2012 in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Dopo diverse esperienze nel 2015 si abilita all'insegnamento presso lo stesso Ateneo. Ha lavorato a Roma e Bergamo e vive itinerando.
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