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Alla domanda “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?”, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.
(Toni Servillo nel film “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino)

Bisogna essere sempre ubriachi. Tutto sta in questo: è l’unico problema. Per non sentire l’orribile fardello del tempo che rompe le vostre spalle e vi inclina verso la terra bisogna che vi ubriacate senza tregua. Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù, a piacer vostro. Ma ubriacatevi.
(Charles Baudelaire)

L’unica conoscenza assoluta che l’uomo possa raggiungere è che la vita non ha alcun significato.
(Lev Tolstoj)

Che cos’è il Fato? Forse una forza cieca, ottusa che ci spinge in determinate direzioni? E chi è che le determina? Un dio, il Fato stesso? E non possiamo noi, creati a immagine e somiglianza di Dio, opporci con tutte le nostre forze in virtù del libero arbitrio? Non possiamo dunque lottare, sgomitare, dibatterci per affermare la nostra volontà? E non stiamo forse, anche in questo caso, facendo esattamente ciò che dobbiamo?
Sediamo qui, ci balocchiamo con mille idee, ci muoviamo credendoci liberi, invece stiamo solo aspettando che si metta in moto il gioco a incastro delle coincidenze, che poi neanche esisterebbero, a darci vita e fare andare avanti il nostro film. Quindi, cosa ci governa? Il Caso? Il Destino? E se fossero la stessa cosa?
Quella sera, c’era Marino e c’era Ennio, e c’era anche il fratello di Marino, arrivato in città perché prossimo agli studi e desideroso di respirare quell’aria nuova, seducente, che sapeva di fortuna, arte e cognac e che ben presto l’avrebbe accolto tra le sue spire scure come un famelico serpente di mare.
La notte procedeva e la folla non scemava tra le luci al neon, gli schiamazzi e i lampioni. Tutto, i vicoli, le persone, le bottiglie, era giallo ambra. Ma non alle Isole.
No. Lì si respirava un’atmosfera più tranquilla, c’erano meno spacciatori, puttane e barboni, i tavolini e le sedie, presi un po’ dove capitava, ospitavano avventori più tranquilli, che parlavano a voce più bassa e sorseggiavano drink più costosi. Il Quartiere Nipponico era più elegante e questo creava un’atmosfera tesa, di horror vacui per ciò che non c’è, o non vedi, di pericolo incombente dietro sorrisi di plastica e denti sbiancati.
A Marino piacevano una volta sorrisi di plastica e denti sbiancati. Poi qualcosa dentro di lui si era spezzato e non riusciva più a ripartire, qualcosa gli era caduto sulla testa, e quel qualcosa doveva essere più o meno tutto, diciamo un po’ come i Galli che avevano paura del crollo della volta celeste e di nient’altro, quindi aveva decisamente optato per denti meno curati e drink spesso andati a male, senza sapere nemmeno lui realmente perché.
Nondimeno la serata procedeva gagliarda, si fumava, si parlava, perfino si rideva. Un gruppo in tenuta bianca suonava musica d’avanguardia che faceva molta atmosfera. Marino non pensava, Giorgio non parlava. Ennio parlava, beveva, fumava perfino e soprattutto guardava. La fauna femminile rispondeva guardando entrambi i trentenni e perfino il candore di Giorgio riscuoteva un discreto successo, perché era ancora incontaminato, non aveva quella polvere luccicante addosso, non era ancora Agglomerato, seppur per poco.
Sopra le loro teste, non il cielo, le Isole. Piattaforme di vero terreno sospese artificialmente in aria da quegli incredibili giapponesi, Dio solo sa come. Per prima si vedeva la più piccola, in modo tale che l’imponente mole della più grande potesse sporgere da sopra oscurando del tutto la volta stellata. All’ombra delle Isole storie di fratellanza artistica e amore si avvicendavano ogni notte orchestrate dalle geishe e sotto il fermo occhio di ghiaccio di Take, il proprietario nonché tuttofare del poderoso impianto. La periferia dell’Agglomerato era cresciuta a dismisura e si era anche sviluppata e se l’Isola del Lungomare era il paradiso dei ricchi, le Isole giapponesi erano quelle dei radical e il quartiere aveva raggiunto dimensioni mostruose, come i suoi introiti. Quei nipponici della zona ovest sapevano il fatto loro e se c’era bisogno di qualcuno che si desse realmente da fare in quel decadente pasticcio postmoderno potevi ben rivolgerti a loro.
Erano molti gli eventi mondani cui potevi partecipare alle Isole. Memorabili gli open bar, in occasione dei quali, pagando un prezzo fisso in effetti irrisorio, avevi un’ora di tempo per tracannare tutti quello che vedevi. Poi i nostri bohémien tornarono in città e Take decise di proibire gli open bar.
Ennio indossava una palandrana multicolore e ora flirtava addirittura con una delle geishe. Marino aveva una maglietta nera, era distratto e spiegava a suo fratello i benefici derivanti dall’assunzione dell’assenzio ben preparato.
Un cenno ed ecco stagliarsi tra la folla una figura familiare e tracagnotta. Andrea, sciarpino e maglia a righe molto (troppo) aderente, salutò e si avviò al tavolino. Davanti a lui, nientemeno che il Critico di Chiara Fama, accompagnato da due procaci miss, la bionda in abito rosso, la mora in vestitino da sera nero, attillato, luccicante e scandalosamente corto e costoso. Tutti si sarebbero girati a guardarli, se quello non fosse stato lo standard estetico di norma alle Isole.
Marino si alzò di scatto, uscì dalla pedana candida e si diresse verso una zona poco illuminata. Quasi tutti lo guardarono, quasi tutti lo riconobbero, gli altri l’avevano già riconosciuto prima. Era abituato agli occhi puntati addosso, e anche a non attribuire il fatto all’estetica, ma non a farlo da solo.
- Clelia.
- Ciao Marino.
Clelia era alta, mora, abbronzata e aveva un vestito nero che terminava in una gonna lunga e larga.
- Tutto bene? Che ci fai così lontano?
- Quello che ci fai tu. Niente. Qui non si fa niente. Le cose realmente belle succedono per la strada. - sorrise la ragazza, avrà avuto sì e no 25 anni.
“Spero avrà apprezzato la mia citazione.”
“Detesto quando fanno così. Due battute e non perde l’occasione di metterci la citazione. E che io sia dannato se l’ho scritta così questa roba. E che cazzo.”
- Vero. Senti, hai notizie di Eleonora?
- Non molte, sta con quel tipo adesso.
- Sì lo so. In realtà volevo salutarti, non chiederti di lei. - disse Marino sincero.
- Okay, ma non mi chiami mai.
- So anche questo. Però ti ho vista e mi sono alzato. Non ci vediamo da un po’. Poi potevi anche non essere tu, non ci vedo molto bene.
- Sono le luci della ribalta che ti accecano.
- Era vero una volta.
- Alcune non si spengono mai. Vorrei chiederti come stai.
- Allora fallo.
- Non serve, lo so da me.
- Credete tutti di sapere tutto, ma alcuni leggono solo dei giornalacci.
- Non io chéri, e neanche gli altri. Fa rumore una quercia quando cade.
Improvvisamente li vide scivolare in una Bentley e partire, discreti, silenziosi, lentamente. In realtà ci fece poco caso, guardava l’altra negli occhi.
- Non vuoi lei, - disse Clelia. – vuoi una cosa che non c’è più.
- Mi ricordo un sacco di cose belle.
- Le cose belle sembrano sempre un ricordo.
- Però.
Un’auto accostò. Non reggeva il confronto con la Bentley, si trattava di persone normali che sicuramente aspettavano Clelia. La portiera del lato destro si aprì piano.
- Devo andare. - fece Clelia, che era riuscita a guardare Marino negli occhi per un quarto della conversazione.
- Dove? - chiese il poeta con gli occhi piantati nei suoi e non nella scollatura, cosa che per la legge degli eventi desueti la faceva rabbrividire.
- Secondo te?
- In Centro! - dissero entrambi ridendo.
- E dove se no?
Gli toccò un braccio, lui si concentrò inspiegabilmente sulla catenina al collo di lei.
- Ciao. - gli disse solo, e sparì.

Marino aveva fatto non più di quattro passi nella scia tracciata poco prima dalla Bentley amaranto avvicinandosi al vecchio parco. Il contesto mutò repentinamente come solo nell’Agglomerato accade. Due barboni sudici giocavano a dadi sul marciapiede, le barbe lunghe, le mani fasciate, uno aveva una gamba di plastica che agitava di continuo, una puttana abbastanza avvenente e morta di freddo lo guardò e gli fece l’occhiolino, lui guardò, lei abbassò il volto e gli fischiò.
- Marino.
Quattro o cinque ragazzi africani si avvicinarono e cominciarono a estrarre qualcosa da tasche e borse. Qualunque altro essere umano si sarebbe sentito sperduto o quantomeno fuori posto. Lui esitava.
- Vattene, Marino. - disse la donna dalla sfacciata prestanza fisica nonostante qualche chilo di troppo.
- Sì, ma affanculo! - tuonò Ennio sopraggiungendogli alle spalle in compagnia di Giorgio. - Maledetto, dov’eri? Non so muovere un passo qui!
- Ero qui, e fra poco saremo in centro.
- Maledette geishe, per uno sguardo! Takeshi lì voleva tagliarmelo per uno sguardo!
- Non era uno sguardo, vero? - Marino guardò Giorgio che scoppiò a ridere, al settimo cielo per la serata e per l’assenzio.
- Ma non era un posto tranquillo e per bene? Mannaggia, me lo potevi dire!
- Se ti faccio da badante dovrai pagarmi, ora che infiammi i locali con gli Uer te lo puoi permettere.
Uer, Uncle Ernie Rivisited, la nuova esplosiva band di Ennio, e mai nome fu più appropriato.
- Cialtrone fallito di un poeta marcio, ubriacone!
- Hai toccato il culo a Kibi, ahahah!
- Come lotta!
Risero, si abbracciarono, erano andati.
Un’ombra li seguiva.
- Ce ne andiamo? Me la sto facendo addosso!
- Taxi!
- Hai i soldi per un taxi!?
- Paghi tu!
- No, tu!
- Ho capito, paga Giorgio!
Giorgio era ormai inservibile, si buttarono in un taxi dicendosi Senatori della Repubblica, il tassista estrasse una calibro 9, ma quando li riconobbe li accompagnò gratis lo stesso. Ennio gridava, Giorgio rideva a crepapelle ebbro di assenzio che usciva e città che entrava, Marino era o pensieroso o tutt’al più iracondo. A fine corsa pretese il baciamano e che la fattura fosse inviata a Palazzo Madama, mentre Ennio faceva il suo portaborse e Giorgio giurava di essere sì una battona, ma maggiorenne.


L’indomani mattina l’aroma di buon caffè si spandeva per la casa. Clelia era intenta a zuccherare (ma tutti sapevano che Marino il caffè lo prende amaro), quando lasciò cadere una tazzina trasalendo all’improvvisa visione di una geisha con indosso solo un kimono.

continua

su di me

La mia foto
Ariano Irpino, Avellino, Italy
Antonio Oliva è nato nel 1985 ad Ariano Irpino (AV). Ha partecipato a numerosi progetti teatrali e musicali. Nel 2009 si laurea in Lettere Moderne e nel 2012 in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Dopo diverse esperienze nel 2015 si abilita all'insegnamento presso lo stesso Ateneo. Ha lavorato a Roma e Bergamo e vive itinerando.
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